La mia conoscenza di Milano ha radici lontane che risalgono alla mia infanzia perché una parte della mia famiglia vive qui.
Ogni Natale andavo a trovarli e non mancava mai un salto in centro alla ricerca degli ultimi regali. Spoiler; l’inferno in terra, se chiudo gli occhi ho ancora i brividi.
Sento distintamente il passaggio asfissiante dal freddo tagliente della temperatura esterna al riscaldamento a potenza massima nei negozi; sento lo stordente mix di odori che mi sale nel naso nel reparto profumi della rinascente; vedo davanti a me eserciti di gambe e piedi in marcia, veloci, macchè, velocissimi, alla rincorsa di non si sa che e in chiara traiettoria di collisione con la mia persona; sento una città intera che trasuda frenesia e mi tira delle gomitate. Voglio solo tornare a casa da mia nonna.
Stiamo chiaramente parlando di un’esperienza traumatica, una vigilia di Natale per i negozi del centro di Milano che potrebbe ferirmi anche adesso che ho trent’anni, figuriamoci quando ne avevo dieci.
Ma questa è la storia e così, senza accorgermene, si è fossilizzata in me l’immagine di questa città come quella città che vedevo da bambina, grigia, frenetica e scorbutica, senza che niente mi desse l’occasione di farmene un’idea diversa.

Questo è stato vero fintanto che la mia migliore amica non ci è andata ad abitare. Le ho dato un mese scarso di tempo per ambientarsi prima di suonarle alla porta e occuparle il divano per il weekend.
Con uno sguardo ora adulto ho vissuto, sentito, annusato e gustato Milano, mi sono persa nei suoi meandri e l’ho osservata a lungo. Tutto quello che ho raccolto è andato a creare una nuova immagine di lei, di questa città, composta da mille volti, i mille volti di Milano.

E quindi oggi come la penso? Milano mi sembra molto individualista. Me lo dice la smania che trasuda da tutti i suoi abitanti, che camminano correndo guardando solo dritto. Me lo suggeriscono i modi sgarbati con cui i Milanesi si rivolgono a me. Me lo fa percepire l’altezzositá che vedo ovunque, questa eleganza ostentata, che serve solo a celare l’ipocrisia di molte situazioni.

Ma in questa giungla selvaggia ho scoperto tesori meravigliosi e fiori nascosti. Ho conosciuto persone che mi hanno riportata a casa quando ne avevo bisogno; sono stata in osterie ferme a cinquant’anni fa; i miei occhi sono esplosi davanti a tanta arte che qui trova dimora; mi sono divertita e sentita veramente libera nelle luci della notte.

Tra i mille volti di Milano sta a noi trovare quello che meglio ci rappresenta. E forse Milano è questo, un armadio di maschere da poter indossare fino a trovare la miglior espressione di sé, o fino a perdersi completamente.
Se siete curiosi di sapere quale sia la Milano che mi sono scelta, buona lettura.

Da dove cominciamo? Cominciamo dal centro, da quel centro verso il quale tutta questa città si protende, dal Duomo. Il Duomo è la vera meraviglia di Milano. Amo questa cattedrale e le sfumature che può assumere il marmo di cui è fatta nelle diverse ore del giorno. Alla sua sinistra si trova il Museo del ‘900; intravediamo all’ultimo piano, dietro enormi vetrate che affacciano sulla piazza, l’opera di Lucio Fontana “Struttura al neon”.

A destra del Duomo invece c’è Galleria Vittorio Emanuele II, in pieno stile neorinascimentale, archetipo delle gallerie commerciali di tutta europa. Qui trovano spazio boutiques e grandi firme, il ristorante di Cracco e lo storico bar della Campari. Al centro della galleria nel pavimento è rappresentato un toro e leggenda vuole che fare un giro su sé stessi pestando la palla del toro porti una gran fortuna. Non avrete problemi ad individuarlo, è dove si ammassano i turisti.

Vicino a piazza Duomo c’è Piazza Affari che ospita un’opera di Maurizio Cattelan, noto artista contemporaneo che si distingue per essere sempre sopra le righe. In questo caso ha piazzato un’enorme mano in marmo di Carrara con tutte le dita mozzate tranne una, quella del gesto del ‘vaffanculo’. L’opera è famosa con il nome di “Il dito” ma in realtà si chiama “L.O.V.E.”, una sigla che sta per “libertà, odio, vendetta, verità” e svetta davanti alla Borsa di Milano.

Ancora pochi passi ed entriamo in uno dei miei quartieri preferiti della città, Brera. Siamo in uno dei quartieri più storici e centrali di Milano. Palazzi antichi, nobili ed austeri svettano ai margini delle vie di Brera e per la loro altezza fanno passare poca luce. Il quartiere è allo stesso tempo elegante e sobrio, i suoi negozi sono unici, botteghe artigiane di lusso, atelier e gallerie minori che ci suggeriscono che qui ha sede uno dei più importanti musei meneghini, la Pinacoteca di Brera. Nella stradina che preferisco c’è una moderna Wunderkammer e una chiromante che legge la mano ai bordi della strada. Non so il nome della via e mai lo vorrò sapere, perché mi piace perdermi dentro Brera.

Spostandoci verso la fermata della metro Cairoli, uscendo da Brera, in pochi minuti potete arrivare in via Manfredi Camperio 6 dove si trova un ristorante decisamente particolare. Da “Riso e latte” ad essere come una volta non è solo la cucina, ma anche l’ambiente. Sembra di entrare a casa di una nonna milanese e come in una vera abitazione qui si trovano panni stesi, piatti messi ad asciugare, vecchi elenchi telefonici e tavoli in formica. Meraviglioso. Si mangia divinamente. Molto conosciuta l’orecchia di elefante, ossia una cotoletta alla milanese grande come la mia faccia, o ovviamente riso latte e i risotti in generale (di cui comunque arriva un assaggio di benvenuto). Sono stata qui in Febbraio, fuori faceva veramente freddo e quindi ho colto l’occasione per assaggiare un piatto tipico delle montagne a nord di Milano, i pizzoccheri della Valtellina! Anche in questo caso la mia storia personale entra a gamba tesa: la mia famiglia ha trascorso moltissime vacanze in Valtellina e di conseguenza mia mamma, gran cuoca, ha sempre cucinato i pizzoccheri. Si sa, mamma non si batte mai, ma da Riso e latte ci sono andati veramente molto vicini. Ad accompagnare questa tavola imbandita non mancano le michette, tipico pane meneghino.

Rifocillati, andiamo alla ricerca di un caffè. Non distante da qui ha aperto il primo Starbucks italiano e lo so, lo so, commercialissimo, ma ci passiamo. Il locale è veramente bello; arredamento impeccabile, listino completo di tutti i prodotti Starbucks con una maggiore attenzione verso i caffè espressi, ma soprattutto in bella mostra al centro del bar c’è un macchinario che macina il caffè, caffè che poi ovviamente qui possiamo bere. Ed è veramente interessante, non c’è che dire. Chi è con me però giustamente fa un appunto: ma una cosa così doveva farla un’azienda estera? Possibile che una che ne so, Lavazza, non sia arrivata prima? Mah.

Ritorniamo a girare per la cittá. Non lontano da qui si trova Parco Sempione che ospita al suo interno il Castello Sforzesco e la Triennale. Quest’ultima è una celebre istituzione nel mondo dell’arte contemporanea che ospita diverse mostre temporanee e da quest’anno la sua prima permanente dedicata al Museo del Design Italiano. Visitandolo ci si può stupire di come molte forme e arredi che abbiamo incontrato più volte nel nostro quotidiano (grazie alle quasi copie ricreate da Ikea e altri) discendano da pezzi d’arte e di storia nati della genialità dei designer italiani.

Uscendo dal parco comincia Corso Sempione, una lunga arteria che conduce alla zona fiera e poi fuori dal centro. Noi percorriamo il corso qualche centinaio di metri finché sulla sinistra non spunta via Massena. Molti di voi hanno già capito, qui ha sede Radio Deejay. Siccome l’ascolto sempre, una capatina non potevo non farla.

Tornando sui nostri passi, riprendiamo Corso Sempione, lo attraversiamo in orizzontale e ci buttiamo in via Prina che ci condurrà dritti dritti in via Paolo Sarpi, la Chinatown meneghina.

Lungo tutta la via si susseguono negozi cinesi che, com’è noto, vendono qualsiasi cosa. Non mancano certo i ristoranti. In particolare qui ha aperto una famosa ravioleria cinese, che lavora acquistando la carne dall’italianissimo macellaio che si trova in parte. Oserei dire un riuscito esempio di integrazione.

Ho visto poi da queste parti diversi negozietti di Bao, un panino fatto con la farina di riso con un ripieno che varia a seconda dei gusti.

Non mancano infine negozi di alimentari che vendono una gamma infinita di prodotti asiatici e qui io mi perdo a scoprire cibi mai visti prima.

Se non vi piace la cucina orientale e preferite quella mediterranea non temete. A pochi passi, in via Nino Bonnet 5, ha da poco aperto Pescaria, un locale di origini tranesi che nella sua città natale ha saputo farsi conoscere non solo per la bontà di ciò che serve, ma anche per un sapiente uso di Instagram per farsi pubblicità. Mai visto una foto di un panino al polpo sullo sfondo del mare? Ecco, sono loro. Qui il mare non c’è ma il panino al polpo si, così come quello allo spada (mio preferito) e tanti altri. Il posto è molto bello, si mangia bene, il pesce è fresco e i prezzi sono onesti.

Finito di mangiare, per digerire, fate un salto alla nuova sede della Feltrinelli che sta proprio in fondo alla via. Alla libreria molto fornita si accosta una zona ristoro in cui è possibile trascorrere tutto il tempo che si vuole, in compagnia di amici o di un buon libro. Sono molte le persone che vengono qui a scrivere o a studiare. Per queste ultime all’ultimo piano della struttura si trova un’aula studio dai tetti spioventi, che in qualche modo mi ricorda delle ambientazioni di Harry Potter.

Spostandoci ancora una volta verso nord è possibile visitare il Cimitero Monumentale. Meta di un’allegria unica, il cimitero è a dir poco enorme e ci si potrebbe passare una giornata intera. Come dice il nome stesso, qui i nostri antenati riposano sotto e all’interno di veri e propri monumenti creati e scolpiti da celebri artisti. Cappelle e altari dalle mille forme si susseguono l’una dopo l’altra, accostando nella morte persone comuni a personaggi molto noti tra i quali il fondatore della Treccani, a cui ho indirizzato la preghierina di farmi diventare una fine utilizzatrice della lingua italiana. Speriamo m’ascolti.

Dal passato ci teletrasportiamo nel futuro quando arriviamo nel quartiere Isola, zona di recente edificazione diventata famosa per il suo carattere futuristico. Qui svettano palazzi di vetro e strutture di acciaio. Uno dei fiori all’occhiello del quartiere è il Bosco Verticale di Boeri (per inciso, presidente della Triennale). Si tratta di un alto palazzo dalle cui terrazze e finestre spuntano alberi e cespugli verdeggianti.

Secondo fiore all’occhiello di Isola è Piazza Gae Aulenti, che mi ricorda moltissimo il Sony Center di Berlino. Si tratta di una piazza semi coperta da alte strutture di vetro e acciaio dalle forme modernissime, con al centro una fontana diffusa all’interno della quale si può passare a piedi. Tutto intorno grandi marchi e uno spazio anche per mostrare la nuova auto della Tesla.

Uscendo dalla piazza si raggiunge in pochi minuti Corso Como, una via molto nota della città. In bilico sulla linea sottile che separa il particolare dal puramente commerciale vi segnalo due posti che a me piacciono molto. Il primo è Corso Como 10 dove negli anni ’90 Carla Sozzani apre una galleria d’arte in una tipica casa a schiera milanese. Oggi attorno ad essa sono nati un bar caffè meraviglioso immerso nelle piante (non economico), una libreria in cui si possono trovare edizioni particolari, principalmente legate al mondo dell’arte, dell’architettura e del design, e un negozio di abbigliamento con capi a dir poco eccentrici.

Pochi civici più in là, al numero 6, ha aperto invece un negozio in cui è possibile trovare moltissimi oggetti di arredamento firmati Seletti e Toiletpaper. Io qui potrei finire lo stipendio.

Questo nuovo sfavillante quartiere è collegato al resto dalla stazione Garibaldi, grande snodo nella rete dei trasporti cittadini. È da qui che partiamo per recarci ancora più a nord, quasi al confine di Milano 1, per visitare l’Hangar Bicocca. Spazio espositivo dal 2004, l’Hangar Bicocca negli anni ha ospitato molti importanti artisti. Sempre potete ammirare la mostra permanente di Anselm Kiefer con i suoi Sette Palazzi Celesti. Sette torri e cinque grandi tele che catapultano il visitatore in uno scenario post apocalittico che ha un inquietante sentore di presente.

Ad un certo punto nei miei diari di viaggio lo sapete, mi viene fame. Riprendo la metro con i miei amici per recarmi a Lambrate, quartiere periferico a nord est, per andare nell’omonimo Birrificio Lambrate (nb: a Milano c’è una sede più storica di questo birrificio, ma io per ora non ci sono stata). In questo pub in pieno stile inglese passiamo una serata a ricaricarci, gustando un piatto di carne (dallo stinco, alla scaloppina fino all’hamburgher) e un paio di buone birre.

Altro giro altra corsa, un altro giorno e forse un altro mese; Milano e un altro dei suoi volti.

Cambiamo zona e spostiamoci a sud del Duomo, dove c’è molto altro da vedere e scoprire.

Se siete appena arrivati a Milano col treno e la giornata è piovosa una buona idea è prendere la metro e andare alla Fondazione Prada. Il collegamento è davvero molto comodo e avrete modo di trascorrere qualche ora al riparo. La Fondazione è composta da diversi spazi e ospita numerose mostre d’arte, a cominciare dalla collezione permanente situata in una torre con sei piani espositivi. La torre è giá interessante di per sé dal punto di vista architettonico; studiata in ogni minimo dettaglio, ogni piano ha un’altezza diversa, crescente dal basso in alto, e differisce dagli altri anche per pianta e orientamento. All’interno, la collezione “Atlas” dispiega molte opere note, come Tulips di Jeff Koons, Remains of the Days di Mona Hatoum che propone un salotto carbonizzato, teche visionarie di Damien Hirst e infine l’opera che più mi ha colpito forse perché è la più sensoriale; all’ultimo piano espositivo il guardia sala ci invita ad entrare in un piccolo corridoio completamente buio che si attorciglia su sè stesso facendoci perdere l’orientamento. Una mano sullo scorrimano e una davanti a noi per non andare a sbattere saranno le uniche guide, in un silenzio assordante, per condurci all’uscita. Ed è qui che si apre una stanza al rovescio dove enormi funghi bianchi e rossi pendono dal soffito, roteando lentamente ed inesorabilmente su sé stessi. La sensazione di illusione è inafferrabile, ma per provarla vi suggerisco di attraversare l’opera in un raro momento di solitudine. L’artista è Carsten Holler e l’opera si chiama Upside Down Mushroom Room.

Come accennavo la Fondazione Prada è costituita anche da altri spazi. Uno di questi è la Hounted House, riconoscibile dall’esterno perché completamente ricoperta d’oro. Da quello che ho capito sono stata più che fortunata ad avere la possibilità di visitarla, perché non è sempre aperta. Salendo per le scale di questa casa che a tutti gli effetti assomiglia ad un rudere, si incontrano diversi oggetti che hanno un senso di ricordo, e uno di abbandono. Infine, nell’ultima stanza, così piccola che è quasi facile perdersela, ho visto la mia forse opera d’arte preferita di sempre; non sono un’esperta, non posso darvi spiegazioni tecniche, ma quello che vi posso dire è che davanti, o meglio sopra, a quest’opera io più del solito ho sentito qualcosa. Faceva in qualche modo parte di me. L’artista si chiama Robert Gober e l’opera consiste in un cuore rosso luminoso abbandonato in un tombino.

A seguire la Fondazione Prada ha al suo interno un cinema, che non ho visto, e una mostra temporanea che nel mio caso era curata tra gli altri da uno dei miei registi preferiti, Wes Anderson. Semplice e particolare, la mostra ha ricreato una Wunderkammer raccogliendo manufatti, opere e oggetti a dir poco stravaganti.

Piccola nota; è sempre Wes Anderson ad aver curato il Bar Luce, punto ristoro della Fondazione.

Conclusa la visita, lascio la Fondazione per recarmi ad incontrare un’amica (si, sempre quella di prima) alle Colonne di San Lorenzo, un tempo luogo di ritrovo delle generazioni punk milanesi. Cominciamo a passeggiare imboccando Corso di Porta Ticinese. Sono le cinque e mezza del pomeriggio, è novembre e il sole è già calato; l’aria comincia a farsi fredda, ma in giro c’è comunque un sacco di gente che entra ed esce dai tanti negozi illuminati che imperlano i marciapiedi di questa strada. Noto che in questa zona ci sono molte botteghe di argenteria e bigiotteria etnica, dove non possiamo esimerci dall’acquistare un piccolo souvenir. Quasi senza accorgercene arriviamo all’Arco di Porta Ticinese e a questo punto in pochi minuti si possono raggiungere i Navigli.

Tutto questo quartiere che negli anni ’70 il quartiere popolare e rosso di Milano oggi è la zona più alla moda della città, almeno tra i giovani. Fulcro della così detta movida, è terreno fertile per l’apertura di sempre nuovi locali, bar e ristoranti.

Noi non ci siamo fatte mancare niente e quindi di seguito vi consiglio qualche indirizzo in cui siamo state bene.

Per bere un bicchiere di vino, tra i mille bar possibili, ce ne sono piaciuti molto tre.

La Vineria, in via Casale, dove si può prendere una bottiglia di vino sfuso e dividerla con gli amici a prezzi che da queste parti risultano più che economici. Nella stessa via, poco più avanti, sulla destra, ho intravisto un altro bar che affronta l’aperitivo con lo stesso spirito semplice. Se vi va di stare proprio affacciati sul Naviglio allora vi consiglio la Prosciuteria, localino che strizza l’occhio alla Toscana proponendo buoni vini e taglieri invitanti di salumi e formaggi. Ci si può anche fare preparare un panino scegliendo tra molti ingredienti, comprese svariate verdure cucinate alla casereccia. Quattro ingredienti, quattro euro.

Se siete tipo da cocktail avrete l’imbarazzo della scelta. I Navigli sono costellati di bar arredati con stile e cura e che vi propongono drink ric recati. Su tutti ne abbiamo provato due di cui conserviamo un buon ricordo; il Pinch e l’Ugo, dove ho assaggiato un whisky agli arachidi (giuro sapeva davvero da arachide).

Per cenare invece il mio consiglio spassionato vi porterà al Brutto Anatroccolo, vecchia trattoria milanese che cerca di rimanere fedele.a sé stessa e al suo passato. Apre alle 21 e non si può prenotare, quindi arrivate presto. Se non siete fortunati sarà lo stesso oste a suggerirvi di attendere al bar affianco, che con la trattoria condivide lo stesso amore per il passato. Una volta accomodati al tavolo, al brutto anatroccolo troverete tutti i piatti della tradizione, non solo milanese. Dal risotto alla cotoletta, dai tortelli alle puntarelle. Tutto è incredibilmente buono e soddisfacente, come solo la cucina casereccia da essere.

Approfitto di questo momento culinario per suggerirvi un altro posto in cui andare a cena. Si chiama Trippa, si trova in zona Porta Romana, ha la stessa passione per le vecchie trattorie del locale precedente ma sale decisamente ad un altro livello. Le proposte sono principalmente piatti di carne che coinvolgono tagli e parti inusuali dell’animale, quelle che solitamente si scartano. Per chi non ha troppa voglia di osare, qui trovate anche un vitello tonnato eccezionale. Il conto, senza tanti mezzi termini, è salato, ma per noi ne è valsa la pena. Piccola ma fondamentale annotazione: si prenota online ed è praticamente impossibile trovare posto. A mezzogiorno del giorno stesso si può fare una telefonata per vedere se qualche commensale ha disdetto la cena. Noi ce l’abbiamo fatta solo grazie all’arte oratoria della mia amica, così spigliata che pure Catone se la scorda. Dopo una cosa come 40 minuti di chiacchiere, il cameriere, credo ormai commosso per la tenacia, è riuscito a farci avere un posto a detta sua risicato, ma che secondo noi è il migliore di tutti: al bancone con vista cucina. Una cena memorabile.

Infine, non mancano certo i locali in cui concludere la serata con un concerto o andando a ballare e non sono di certo io a dovervi citare gli ultranoti Magazzini generali, Frabriq, Sannteria Toscana, Rocket e molti altri. Uno su tutti però lo devo menzionare, in memoria di una serata della quale io e la mia amica staremo ancora parlando tra vent’anni. Quindi, cara Giada, per te “Plastic! Killer Plastic!”.

Con questo detto e non detto sì chiude il mio viaggio nella giungla metropolitana, che è tutto e il contrario di tutto, che è passato e futuro, vetrina e sgabuzzino, che offre e pretende e che forse non ha finito di riservarmi delle sorprese.

Dischi ascoltati

Cosmo, L’ultima festa

Daft Punk, Homework

Libri letti

A. Rollo, Educazione milanese

J.S. Foer, Ogni cosa è illuminata